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Giustizia e pace: diritti da salvaguardare e promuovere
Maturità individuale e coesione nella coppia

Monza 21 settembre 2013 - “Educare alla pace”

Relazione del prof. Marco Dal Corso “Educare alla pace” 


1) La mancanza di pace: uno sguardo antropologico

Questa interpretazione è stata elaborata dal famoso pensatore francese contemporaneo, Renè Girard. La sua tesi è che la dinamica fondamentale della vita umana si trova nella struttura del desiderio.

Questa attraversa tutte le dimensioni del nostra interiorità e possiede un carattere insaziabile. Per quanto si desiderino, si identifichino e si conquistino gli oggetti del desiderio, la dinamica desiderante rimane sempre vergine e aperta all’infinito. Per questo il desiderio è instancabile, portando ansietà, irrequietezza e un sentimento di assenza di pace. Se non riesce a realizzare i suoi desideri, l’essere umano si sente infelice e esiliato dal regno della pace serena e tranquilla.

Cosa può, allora, pacificare il desiderio? Quale è la maniera migliore di desiderare? Nel provare a rispondere a questa domanda, l’essere umano si rende conto che impara a rapportarsi con il suo desiderio imitando gli altri e desiderando quello che gli altri desiderano. Questa tendenza all’imitazione è servita come base alla teoria di Girard chiamata “desiderio mimetico” (mimesis in greco significa imitazione). Tale desiderio mimetico struttura la nostra capacità di desiderio. I bambini esprimono queste fenomeno con trasparenza e semplicità. Non contenti del proprio giocattolo, desiderano quello con cui sta giocando l’altro bambino. E piangono e diventano violenti nella lotta per il possesso dell’oggetto desiderato.


In questa ansia di imitazione nascono i rivali che istaurano un conflitto fondamentale. Due o più persone desiderano lo stesso oggetto. Entrano in rivalità. Ognuno cerca di eliminare gli altri concorrenti per, lui solo, possedere l’oggetto desiderato. Ma il possesso non lascia tranquilli perché altri cercheranno di imitare quella persona e disputare di nuovo l’oggetto. Si sviluppa, allora, una catena di violenza senza freni. Come fermare tale processo distruttivo?

Il meccanismo creato dagli esseri umani è stato l’introduzione del capro espiatorio. Questo occupava, infatti, il posto di tutti coloro che sono stati uccisi per possedere l’oggetto desiderato da molti. Invece di morire, moriva al loro posto il capro espiatorio. La sua funzione è stata quella di permettere che tutti scaricassero le loro ira e desideri mimetici frustrati. Per un momento il capro espiatorio diventava la vittima assoluta sulla quale si concentravano i crimini di tutti.

Si faceva, allora, un rito sacrificale del capro espiatorio (inizialmente una persona, un innocente, uno schiavo, un bambino, più tardi un animale) attraverso il quale tutti si riconciliavano. Non c’era più bisogno di uccidere o morire a causa della lotta del desiderio mimetico. Il capro espiatorio moriva per tutti, al posto di tutti. Adesso poteva nascere la pace.

Più tardi le culture hanno messo al posto del capro espiatorio le leggi e il diritto, gli ordini stabiliti e le istituzioni sociali che funzionano come maniera di imporre limiti all’aggressività umana e garantire il funzionamento pacifico della società.

Ma si è così arrivati alla pace? Il problema è solo stato spostato dal momento che è possibile constatare che tutti gli ordini producono vittime e sono escludenti. Essi nascondo al loro interno una violenza camuffata: coloro che non si inquadrano dentro tali ordini o sono puniti o sono esclusi. Non conosciamo formazioni sociali e istituzioni, anche le più universaliste, che siano riuscite a includere tutti. Per mantenere la propria identità, garantire determinato ordine, erigere certe dottrine o dogmi e mettere limiti al libero arbitrio sono sorte le norme minime che devono essere osservate pena la punizione o l’esclusione. Poiché ci sarà sempre coloro che le violano o si sottraggono ad esse per qualche motivo in nome della libertà o di un ordine migliore. E costoro saranno puniti o esclusi. Si è riprodotto così il controllo, la repressione e la violenza. Si rende evidente la mancanza di pace. Si creano quindi meccanismi giustificativi. Si inventano nuovi capri espiatori.

Ogni ordine (istituzione, chiesa, sistema politico tra altri) crea i propri “capri espiatori”: gli ebrei per il nazismo, i comunisti per il capitalismo, i borghesi per il comunismo, i sovversivi per le dittature militari, gli eretici per la chiesa cattolica e così in avanti.

Per gli ideologi del capitalismo, il socialismo ha funzionato per cinquanta anni come il grande capro espiatorio, l’Anticristo, l’ Armaggedon. Attraverso la sua sconfitta si prevedeva un mondo di pace. Ilare illusione! E’ sorta una nuova ordina mondiale altamente creatrice di vittime perché fondata sul mercato mondiale la cui logica fredda è la competizione e non la cooperazione. Due terzi dell’umanità sono esclusi dai benefici dello sviluppo, vittime sull’altare di Mammona delle finanze speculative. Non c’è pace nel mondo del lavoro, nelle imprese, nelle politiche nazionali e mondiali. E’ riapparsa la violenza sotto forma di esclusione sociale, del fondamentalismo e del nazionalismo.

E tutti sembrano vivere nell’illusione che, eliminato il capro espiatorio, finalmente si apre il cammino per la pace. Invece, sacrificato il capro espiatorio, se ne crea un altro e un altro ancora e così di seguito. E gli esseri umani continuano senza pace, cercandola in modo illusorio per cammini che non hanno uscita. Muoiono di sete prima di arrivare alla fonte. Perché? Perché non riescono a creare società di cui tutti possono far parte e non, invece, aver bisogno della violenza per starci dentro, creando in tal maniera sempre vittime e distruggendo la pace.

E’ urgente, quindi, una grande conversione: invece del desiderio mimetico che esclude, occorre introdurre il desiderio mimetico che include e rende comune l’oggetto desiderato. In questa maniera tutti possono condividerne e goderne i benefici. Perché non vince questa strategia di inclusione, generatrice di pace? Perché predomina il desiderio mimetico negativo? La ragione che indaga vive, senza successo, cercando una risposta.

2) la mancanza di pace: uno sguardo psicanalitico

Questa interpretazione di mancanza di pace nel cuore umano, nelle relazioni interpersonali e sociali proviene dalla moderna tradizione psicanalitica. Secondo questa interpretazione, esiste nell’essere umano un confronto permanente tra due forze antagoniste: l’eros, che vuole la vita, e thanatos, che porta la morte. Per quanto cerchi di vivere, l’eros soccombe davanti a thanatos. Da qui l’immensa difficoltà per accogliere la morte. Questo mancato incontro tra la vita e la morte genera la paura, paura che la morte possa insinuarsi in mille maniere e completare la sua opera devastatrice. E a sua volta la paura genera la violenza, violenza contro tutto quello che possa minacciare la vita o rafforzare la morte. Si instaura, così, uno stato di guerra permanente e generalizzato e scompaiono le basi per la pace.

Qui risiede l’origine dell’aggressività: la paura che l’altro possa minacciare, togliere o diminuire le nostre chanches di vita. Egli può essere portatore della morte che rifiutiamo. Per questo è un nemico. E come tale deve essere combattuto ed eliminato nell’illusione che così sia possibile evitare la morte. O ancora, nell’illusione capitalista dell’accumulazione privata e illimitata, si cerca di accumulare potere e ricchezza per garantirsi illusoriamente la vita contro la morte. Ma la morte segue il suo corso irrefrenabile e comanda a tutti senza eccezione. La morte trionfa sulla coscienza spaventata, facendo diventare la pace un bene inaccessibile.

Come superare tale impasse constatato anche nella interpretazione precedente? Prima di tutto occorre abolire la categoria di “nemico”. Como è possibile? Allontanando la paura, produttrice di violenza. Si allontana la paura quando si introduce la fiducia, l’amore incondizionato e specialmente la cura. Quando gli essere umani iniziano a prendersi cura reciprocamente, aver cura del bene comune, della salute, dell’educazione, della casa, della comunicazione libera, dell’ambiente, allora scompaiono le cause della paura, perché nessuno minaccia nessuno.

Questa è la lezione di tutti i maestri spirituali e dei politici saggi. E’ la lezione lasciata da Gesù. Egli ha stabilito l’amore senza condizioni al prossimo. Gli hanno chiesto: chi è il prossimo? Invece di dare una risposta teorica, egli ha raccontato la storia del buon samaritano. Da quella storia si capisce chiaramente che prossimo è sempre quello a cui io mi approssimo, poco importandosi della sua condizione sociale o religiosa. Per questo dipende da me fare degli altri dei nemici o dei prossimi. Posso assumere il progetto di vita nel quale per me non ci sono nemici e, attraverso la cura, il perdono e l’accoglienza tutti possono essere approssimati e fatti prossimi.

Il punto di rottura non si trova tra me e l’altro, sospettato di essere un nemico, ma tra la mia coscienza e le pulsioni che battono in essa. Esse sono dentro di me, ma non è necessario essere prigioniero delle pulsioni. Posso metterle sono il controllo della presa in cura, della ragione, dell’amore, della cooperazione e della compassione. Posso, questo è una grande sfida spirituale, accogliere la morte come parte intrinseca della vita, come invenzione saggia della stessa vita che da un salto di qualità al di fuori delle coordinate spazio-temporali verso una nuova ordine superiore di vita, di comunicazione e di amore.

La morte, accolta amorosamente, come gli uomini e le donne spirituali di tutto i tempi hanno testimoniato, perde la maschera sinistra di arci-nemica della vita. Essa si trasforma al chimicamente in sorella e in apertura per una vita superiore. La paura sparisce. La coscienza libera dalla paura si sente in pace. La coscienza pacificata è la coscienza in libertà e in perfetta allegria. San Francesco d’Assisi tra altri ha realizzato questo ideale accogliendo la morte come sorella. Tale accoglienza è nelle possibilità dell’essere umano se egli è capace di vivere relazioni di cura, di fede, di speranza e di amore.

Perché la maggior parte degli esseri umani non riesce a mantenere a livello personale, sociale e internazionale questa comprensione? Perché bisogna continuamente creare un nemico? Perché è così forte la mancanza di cura, la paura della morte e la persistenza dell’aggressività che minaccia i cammini della pace? Perché? E’ questa una questione aperta.

3) La mancanza di pace: la voce delle religioni

La terza interpretazione prende le mossa dai molti perché allusi precedentemente. Cerca la sua fonte di illuminazione in un altro ambito dell’esperienza umana: l’incontro con il Mistero di Dio o con il Dio del Mistero. Questa risposta procede dall’esperienza religiosa dell’umanità.

I popoli originari fin dalla più alta ancestralità e le persone religiose di tutte le culture (oggi grandi maggioranze si orientano grazie a visioni religiose) hanno affermato e continuano ad affermare la presenza di un Mistero che è presente e circonda l’esistenza e impregna l’intero universo. Vedono la sua opera nel corso delle stelle, nei minimi movimenti della natura, nella complessità della vita, nel percorso storico dei popoli e principalmente nella profondità del cuore umano.

La sua Parola si esprime in mille linguaggi. L’essere umano li può interpretare e ascoltare tra le molte parole la Grande Parola della rivelazione. Si sente abitato da Dio. Si riempie di venerazione e di rispetto per ogni segnale che annuncia la sua presenza.

Le persone che hanno fede testimoniano l’esistenza di un filo conduttore che attraversa tutti gli esseri e li unisce come perle per formare una splendida collana. Tale filo conduttore è il Mistero ineffabile, pieno di vita e di tenerezza. Queste persone non si sentono semplicemente lanciate nell’esistenza: sanno quello che sono, si sentono inserite nella grande comunità cosmica e terrestre e si vedono sostenute da un Centro di luce e di senso che gli orienta la vita. Morire non è un perdita. Significa il trionfo della propria vita. Per gli uomini e le donne di fede di ieri e di oggi è verità esistenziale quello che recita la Preghiera di San Francesco: “è morendo che si vive la vita eterna”.

Tali persone osano nominare in mille maniere questo Mistero, nella consapevolezza che rimane sempre Mistero in qualsiasi denominazione. Lo hanno definito “Quello che cammina con noi” (Jahvè) Isis, l’Altissimo (Allah), “Colui che illumina” (Dio), “Colui che è cammino e meta” (Tao), Shiva, Padre e Madre di illimitata bontà. Non importano i nomi.Importa l’esperienza del Mistero unificatore.

L’espressione culturale di tale esperienza ha dato origine ha molte religioni. Esse sono gli spazi istituzionali dove si coltiva questa esperienza attraverso i riti, celebrazioni, codici dottrinali ed etici, proiettando idee di giustizia, di fraternità e di felicità capaci di mobilizzare molte persone.

Vivere questo sentimento di appartenenza ad un tutto più grande e sentirsi ombelicamente legati e re-legati al cuore divino riempie la vita di pace e di serenità.

Quando si perde la pace? Quando l’essere umano perde la cura essenziale e la memoria benedetta di tale re-legame spirituale. Quando identifica Dio con una qualche realtà di questo mondo. Quando l’ingiustizia indebolisce l’intimità con il Mistero e si usa la religione, i cammini spirituali e i riti senza la consapevolezza che essi da soli non valgono niente. La conseguenza è la perdita della centro personale, la perdita della pace.

(spunti offerti dalle ricerche di Leonardo Boff. In particolare vedasi: A oraçao de Sao Francisco, Loyola, Sao Paulo, 2012)

4) Per un’educazione alla pace

Si tratta, ora, di provare a descrivere alcuni atteggiamenti di una pedagogia interreligiosa utile, tenuto conto dei motivi per cui manca la pace, a costruire un percorso ed un’educazione alla pace. Ci sembra che a tale scopo possa servire l’identificazione di alcune parole chiave da cui far scaturire un atteggiamento “interreligioso”. Ci serviamo di riflessioni circolanti nell’ambito del dialogo interreligioso che si propongono come “vocabolario minimo” per un’educazione all’incontro tra le fedi1. Perché, non dobbiamo dimenticarlo, il dialogo interreligioso va educato. Sette sono allora le parole per altrettanti atteggiamenti.

1.identità-differenza


Il richiamo alla parola “identità” (che accanto a quella di “sicurezza” è diventata una parola magica in questa società post-moderna) per la pedagogia interreligiosa significa soprattutto smascherare l’invenzione dell’identità operata dalle ideologie di turno. L’identità etnicizzata che spiega i conflitti con le divisioni etniche e tribali, ma anche un’identità sovraesposta, ritenuta unica responsabile, cioè, dei conflitti in atto, così come un’identità esteticizzata, convocata cioè a suonare i tamburi dimenticando la persona che li suona e i suoi bisogni, è spesso un’identità inventata, In questo senso non reale, funzionale, invece, al sistema di potere. L’atteggiamento identitario della pedagogia interreligiosa, invece, è quello che accoglie l’identità così come è, come processo in costruzione, come esperienza di meticciamento da accompagnare. Non un’invenzione, ma quello che è, al cui servizio devono essere le politiche e non il contrario.

Mentre la “differenza”, parola della seconda parte del binomio, dentro la pedagogia interreligiosa significa “diritto all’opacità”: sei così diverso da me che non capisco tutto del tuo universo, che mi tocca non dare per scontato nulla del mio universo, che qualcosa tra noi rimane “opaco”. Eppure questo non impedisce la relazione, la convivenza. Anche perché capisco che la diversità fa parte della realtà. C’è una diversità di fatto che diventa “di principio”.

Allora, il rapporto identità-differenza serve alla pedagogia interreligiosa per educare alla dimensione politica: esso aiuta a capire che la politica non va tribalizzata (come invece si tenta di fare da parte di coloro che hanno l’ossessione identitaria) quanto piuttosto che le tribù (di qualsiasi colore e lingua) vanno politicizzate. Si tratta di educare le tribù a vivere la stessa polis, non di espellere dalla polis le tribù indesiderate.

Immagine scritturistica di questo primo atteggiamento della pedagogia interreligiosa potrebbe essere quella offerta dalla mitologia biblica di Caio ed Abele, dove appare chiaro che, come recita un adagio antico, “l’umanità nasce nell’incontro e muore nello scontro”. Prima ancora di ricavare una qualche lezione morale dalla vicenda biblica qui ricordata, a noi interessa vedere, in questa sede, la conferma che l’essere umano nasce e rinasce nell’incontro con l’altro, mentre smentisce la sua vocazione umana quando nega la diversità dell’altro. Insomma, non muore solo il fratello pastore, ma uccidendo Abele, muore anche Caino. L’imperativo divino che “nessuno tocchi Caino”, in questo senso, è una chanche per l’umanità di Caino stesso, certo, ma anche per tutti gli altri: essa rinasce solo interrompendo la violenza della vendetta (che per affermarsi deve eliminare l’altro).

2.empatia-passione


La pedagogia interreligiosa ha bisogno di em-patia. Per il dialogo, cioè, occorre saper decentrarsi dal proprio punto di vista cognitivo ed emozionale. L’atteggiamento empatico potrebbe essere descritto anche come di colui che, dentro le relazioni umane, sa tener viva la radice affettiva della giustizia, sa contaminare la ragione con la pietà, con il pathos.

Passione, infatti, significa “prendersi a cuore” le sorti dell’altro, atteggiamento tanto più necessario in quest’epoca delle “passioni tristi” e soprattutto dell’assenza di una alfabetizzazione alle emozioni. La pedagogia interreligiosa, insomma, educa alle emozioni: saper dire e riconoscere le proprie, ma ancora di più saper vedere ed ascoltare quelle altrui. In questo senso, l’empatia-passione esercita una funzione terapeutica: essa cura lo spirito e il cuore della persona. Vivere l’empatia guarisce, come anche ricevere empatia. Un cuore empatico pulsa e un cuore che riceve empatia torna a farlo. Di passioni vive l’uomo…

Testimonianza di questo è la figura storica di Gesù di Nazareth. Oltre le preoccupazioni confessionali, sarebbe molto importante recuperare la vicenda del Gesù storico come maestro di empatia. I suoi incontri, le sue relazioni come le sue parole sono “magistero di empatia”. Per imparare a maturare la capacità di ascoltare con il cuore serve ritornare a leggere le vicende di Gesù, la sua traiettoria umana, oltre gli steccati confessionali, come vicenda esemplare dal punto di vista della relazione empatica. Egli è buon testimone della proprietà guaritrice dell’empatia.

3.ascolto


L’atteggiamento dell’ascolto sembra una richiesta scontata dentro una pedagogia interreligiosa che voglia tenere in considerazione il punto di vista dell’altro. Dentro la nostra grammatica interreligiosa e ben oltre una interpretazione tradizionale, ascoltare impegna, come vuole l’etimologia della parola, ad “ob-audire”, obbedire all’altro. L’ascolto così inteso non è una qualche concessione dell’io alle parole e ai sentimenti dell’altro, ma diventa imperativo spirituale oltre che etico: è obbedienza all’altro, ai suoi bisogni, alle sue richieste e desideri. Significa, tradotto in altra maniera, mettersi in un rapporto non giudicante con l’altro, sospendere il giudizio che viene da me per provare ad ascoltare la vita che viene dall’altro.

Per questo l’ascolto non rimane indifferente, neutro, “oggettivo”; esso è sempre partecipante, coinvolgente. Ci sembra che solo in questa maniera sia efficace e abbia senso: l’ascolto partecipante sa, infatti, trasformare l’universalismo della sofferenza in universalismo della compassione. Un ascolto distaccato, freddo, quasi fosse una raccolta di parole dette da altri ma che non coinvolgono lascia la sofferenza sofferenza. Questa si redime solo quando l’ascolto del suo dolore mi coinvolge al punto tale da provare ad eliminare o almeno alleviarlo. So capire l’altro quando sono capace di ascoltare il suo dolore.

Un proverbio africano dice efficacemente che “se la cecità separa dalle cose, la sordità separa dalle persone”. In questa visione religiosa tradizionale ci pare di scorgere una icona interreligiosa che ci ricorda l’importanza dell’ascolto: esso è molto di più di udire e la sua negazione ci priva delle relazioni umane. L’incapacità ad ascoltare, allora, è mortale, porta all’isolamento, alla separazione dagli altri.

4.conoscenza


La conoscenza all’interno del dialogo interreligioso rappresenta un ulteriore atteggiamento della sua pedagogia. Essa, come facilmente si può dedurre, è anzitutto un prerequisito indispensabile al dialogo. Per dialogare è importante conoscere il mondo dell’altro, la sua cosmovisione, magari la sua grammatica dottrinale, sicuramente la sua storia, le persone che l’hanno sviluppata…

Ma la conoscenza non riguarda solo l’altro: conoscere il diverso serve a conoscere meglio se stessi. Nel confronto con la diversità acquisto maggior consapevolezza della mia identità. Processo della vita biologica, la mia identità culturale ma anche di genere diventa consapevole solo nell’incontro con altre diverse identità: scopro di essere “bianco” sono nell’incontro con chi “bianco” non è…

Inoltre, la conoscenza dell’altro serve per purificare il linguaggio e costruire quello che gli ecumenisti definiscono la “riconciliazione delle memorie”. Abbiamo bisogno di parole nuove per dire e ricostruire i rapporti con gli altri. Esistono ancora parole “vecchie” che si portano appresso l’ignoranza piuttosto che la conoscenza del mondo altrui. La conoscenza, insomma, permette di liberarsi da memorie prigioniere dell’ignoranza.

In questo senso, la spiritualità musulmana ci ricorda che “si ha paura solo di quello che non si conosce”. Occorre liberarsi dalle paure che riposano, ieri come oggi, sull’ignoranza. Questa nuova immagine interreligiosa aiuta la pedagogia del dialogo ad andare oltre le paure che l’ignoranza, quando non un’ideologia apologetica e di potere, ha costruito. E’ possibile costruire il dialogo e sperimentare una pedagogia interreligiosa quando questa si nutre anche di elementi conoscitivi, quando viene alimentata dalla conoscenza della storia dell’altro. Per riconoscere serve conoscere. La fobia nei confronti di tante e diverse alterità (religiose, culturali ma anche sessuali) viene dall’ignoranza.

5.decentramento


La pedagogia interculturale ha maturato un atteggiamento, quello del decentramento, indispensabile per un rapporto tra culture e persone di diversa identità che voglia essere paritario e, appunto, interculturale. Da essa impariamo che il decentramento è quanto mai utile anche in ambito interreligioso. Non solo utile, ma anche “logico”. Infatti, è proprio la cosmovisione religiosa che ci invita ad assumere la logica della ex-sistenza: del vivere fuori di sé, oltre la finitudine dell’io, direbbe al teologia cristiana, oltre il desiderio dell’io, direbbe, invece, la spiritualità buddista.

Decentrarsi, tradotto dentro la grammatica delle religioni, vuol dire saper vedere oltre il proprio orizzonte, vuol dire, ad esempio, saper riconoscere i “nuovi volti” delle fedi ed esperienze religiose che stanno nascendo: un cristianesimo sempre più abitante del sud del mondo, un islam sempre più europeo non solo perché portato dalle valigie degli immigrati, ma anche con un “volto” europeo proprio…

Decentrarsi può voler dire, tra altre cose, che il dialogo interreligioso non potrà mai essere di tipo apologetico, centrato, cioè, su se stesso. Il decentramento, insomma, aiuta a vedere i punti di vista degli altri e soprattutto a capire che “il proprio punto di vista è solo la vista di un punto”.

Icona interreligiosa ci sembra, qui, la ricca tradizione sapienziale non solo giudaica-cristiana, ma anche orientale quando invita, come fa il Qoelet, a non assolutizzare, a non centrare su di se, a non pensarsi padroni del mondo, a rivedere le cose da un altro punto di vista. Ed infatti: “ho visto tutte le cose che si fanno sotto il cielo ed ecco tutto è vanità e un inseguire il vento” (Qoelet 1,14).

6.accoglienza-ospitalità


L’atteggiamento dell’ospitalità e dell’accoglienza è tipicamente religioso: il dovere di ospitare lo straniero, il pellegrino, infatti, appartiene a tutte le morali religiose tradizionali. A capirne la valenza ci aiuta ancora l’etimologia quando ricorda che accoglienza significa “ad-colere”, cioè, cogliere presso di noi, far posto ad un altro che ha bisogno di fermarsi. Sono le necessità della vita che indicano “gli imperativi categorici” alle culture e alle religioni. Ma all’interno della pedagogia interreligiosa che andiamo descrivendo non serve solo un riferimento alla pratica ospitale. Più di questo, ad essa serve un pensiero ospitale: quello che ricorda come l’umano non si esaurisce nella logica dell’essere, ma nel suo superamento. Essere, secondo il pensiero ospitale, è essere-per-l’altro. C’è un di più antropologico (superamento della logica dell’essere), filosofico (prima di “penso dunque sono” riconoscere che “sono stato pensato, dunque sono”) nonché teologico (quello che dice del Dio ospitale come prima caratteristica divina) nel pensiero ospitale. Insomma, non solo una pratica, un atteggiamento morale, ma un pensiero rifondativo. In questo senso, l’ospitalità è un principio buono per l’ecumenismo che verrà. Dopo, infatti, la stagione dell’ecumenismo del consenso, il principio ospitalità può aiutare a costruire e vivere un ecumenismo e un incontro tra le religioni capace di tenere le differenze senza annullarle, ma anche senza trasformarle in disuguaglianze. Un ecumenismo non solo della co-esistenza, ma capace di pro-esistenza.

Icona interreligiosa per l’ospitalità è quella fornita dalla tradizione africana che riconosce, alla stregua di altre, che “un buon focolare è quello che accoglie ospiti” e ancora di più la versione evangelica che afferma perentoria “ero straniero e mi avete ospitato”, secondo il famoso racconto apocalittico del vangelo di Matteo. Se la prima tradizione dice soprattutto la pratica ospitale, la seconda affermazione impegna il pensiero ospitale. Pratica e pensiero dell’ospitalità., insomma, sono offerti come categoria religiosa capace di ridire le relazioni, l’essere e perfino il trascendente. Dio, secondo la frase evangelica, si manifesta nello straniero, si rende evidente solo dentro una pratica di ospitalità: non la logica dell’affermarsi, ma quella del perdersi, del depotenziarsi. Infondo a dire che un nuovo mondo è possibile solo se applichiamo l’asimmetria dell’ospitalità.

7. racconto

Infine, altro atteggiamento utile a costruire la pedagogia interreligiosa è quello descritto dalla modalità e prospettiva della narrazione. Il racconto religioso prima ancora che il patrimonio dottrinario delle stesse ci aiuta a riscoprire la dimensione narrativa delle religioni: esse nascono per raccontare piuttosto che spiegare il divino. Raccontare come il trascendente si comporta invece che preoccuparsi di capirne la “consistenza”. Non si tratta, però, di una rinuncia: le religioni quando raccontano il loro dio non rinunciano a conoscerlo, solo mettono in campo un altro, diverso modello conoscitivo. Si può conoscere narrando, si può imparare narrando. La verità non viene smentita, solo trasmessa in altro modo, forse il modo più religioso possibile. Perché le religioni hanno prima di tutto delle storie sacre da raccontare. Dopo vengono le formulazioni, i dogmi, i canoni, le teologie. Ma prima di tutto la comunità religiosa è una comunità narrativa e i suoi fedeli per nutrire la loro fede hanno bisogno di storie. Mettersi in ascolto delle storie sacre degli altri aiuta a costruire la possibilità del dialogo tra le religioni. Anche perché è tipico delle storie “guarire”: se le affermazioni dogmatiche separano, le storie uniscono; esse sono spesso, come afferma una metafora musulmana, ago e filo e non forbici tra le visioni religiose. Le storie attraversano, spesso, i confini religiosi stabiliti dalle autorità e dai canoni ufficiali. Esse nutrono tutti coloro che le ascoltano, anche chi non appartiene a quella tradizione religiosa. Il dialogo interreligioso ha bisogno di storie.

E quando, secondo la narrazione evangelica, viene affermato “egli disse loro questa parabola…” non si propone solo un artificio letterario, ma si sostiene, attraverso la parabola narrativa, una modalità di manifestazione del divino. La parabola evangelica, modello narrativo esemplare, non “dice Dio” ma permette che “Dio si dica”. Nella narrazione Dio trova lo spazio per manifestarsi, per potersi dire, per stabilire una relazione (cioè una religione) con l’umano. Le narrazioni in tutte le religioni del mondo sono una delle cose più sacre da scambiare.

(Da: Dal Corso, M. Damini, L. Insegnare le religioni, EMI, Bologna, 2011)

[1] Vedi in particolare Salvarani, Brunetto. Vocabolario minimo del dialogo interreligioso, EDB, Bologna, 2003 a cui queste note, arricchite di riferimenti interreligiosi, si rifanno.

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